Quell’ultima sera di libera uscita


4 marzo 2020. La vigilia di quando ci hanno chiuso in casa. Non me lo aspettavo affatto, non riuscivo neanche bene a immaginare cosa avrebbe significato.

Avevo fatto lezione all’Università Lateranense, quel pomeriggio. Alla fine della lezione era arrivato il bidello e aveva messo i lucchetti al cancello dell’università. Fine delle lezioni in presenza. Zoom non sapevamo ancora cosa fosse, anche se lo avremmo imparato presto.

Tornavo a casa in una Roma già spettrale. Aspettavo l’autobus davanti al Colosseo, dove si vedeva la sagoma del Molokh, allestito per la mostra di Cartagine che poche settimane prima avevo visitato con un gruppo di vecchi amici, in uno di quegli sprazzi di grazia che ogni tanto mi fanno pensare che sono fortunata (e il più delle volte non ci faccio caso, ma quella volta sì).

Altri ricordi sono più appannati, e neanche Facebook, stampella della mia memoria, mi aiuta. Forse quella sera a casa mi aspettava uno di quegli amici selvatici in cui a tratti ripongo eccessive speranze. Un altro, per curiosa coincidenza, quella stessa sera tornava da un posto dove sarebbe stato normale incontrarmi. E invece il tempo di quell’ incrocio non era ancora arrivato.

Oggi, quattro anni dopo, se penso a cosa abbiamo attraversato mi gira la testa. E allora ritorno sul pensiero di prima: sono fortunata, dovrei farci caso più spesso. Ma oggi mi concedo anche di dire, però, che in questi anni ho anche dato molto. Pure troppo, magari. Oggi però più che mai sono convinta che l’amore non sia mai uno spreco, fosse solo come antidoto al cinismo sempre in agguato.

Questa età, predicavo sabato nella sala di aspetto della stazione di Zagarolo, è davvero tosta. È allo stesso tempo troppo tardi per “fare nuove tutte le cose” e troppo presto per tirare i remi in barca. E dunque vado avanti. Ogni tanto mi arriva una pacca sulla spalla, un incoraggiamento. Ogni tanto me la dò da sola, perché qualcosa l’ho azzeccata, spesso inavvertitamente. Ma le buone intenzioni, quella specie di ingenuità e testardaggine che mi rende così difficile arrendermi all’evidenza e tante porte in faccia mi ha procurato e mi procura, quelle farei bene a non perderle. Perché sono forse il tratto che mi rende simpatica ai miei occhi e che mi permette di essere almeno un po’ indulgente con me stessa.

Ingenuità


Non è che io abbia mai seriamente pensato di essere furba. Questo mai. Eppure in fondo sono convinta di essere veloce a capire le cose, dotata persino di una certa capacità di analisi e di deduzione. Un po’ è la scuola che mi ha indotto a credere di essere intelligente.

Eppure, guardando all’ultimo anno e mezzo, ho preso cantonate madornali, tale da indurmi a dubitare delle mie più elementari capacità logiche. Più precisamente, mi sono bevuta balle, storie inverosimili, frasi dette evidentemente tanto per dire. Si sa, che tra adulti si fa così. Mica l’avrai presa sul personale? Ma sì, vedrai che una soluzione si trova.

Semplificare la vita agli altri, sempre. Non creare problemi. Ma figurati se ci rimango male. Certo, capisco benissimo. Riguardo foto rimaste nella galleria di whatsapp, percepisco in un pensile la presenza di un piccolo contenitore non mio e no, non capisco affatto e tuttavia, come si diceva in un antico programma di Arbore, mi adeguo.

Incasso silenzi, per adesso. Rosso di sera, bel tempo si spera. E tutto quel che segue.

Parare i colpi


Mala tempora currunt. E non accennano minimamente a migliorare. Bersagliati da notizie funeste da ogni parte, io e la mia bolla di amici ci barcameniamo tra la tentazione di imporci di fare gli struzzi e quella di rintanarci nel nostro piccolo privato (il che ovviamente vale per quei pochi che, per dirla con De André, “hanno una donna e qualcosa”: in caso contrario, il piccolo privato rischia di essere più angoscioso dello scenario globale).

L’ennesimo femminicidio nei giorni scorsi ha dato il via a una serie di commenti sui social e in parte anche fuori dai social che, se possibile, mi hanno ulteriormente intristito. Stamattina la mia amica Valentina ha espresso molto bene quella che era anche la mia perplessità: ma siamo davvero così sicuri di poter dare la responsabilità di un delitto commesso da un giovane di 22 anni ai suoi genitori? Io da parte mia non faccio che constatare che, per quanto mi adoperi, la maggior parte delle cose, incluse quelle che riguardano mia figlia, sfuggono fatalmente al mio controllo. E magari è meglio, perché onestamente non credo di essere proprio la persona più adatta a determinare le sorti dell’universo.

Mi sento di dire che da genitore mi pare ovvio mettercela tutta, investire tutto il mio cuore, tutta la mia anima e tutta la mia mente, e in adolescenza questo qualche volta può implicare perdere il proprio equilibrio e la propria sanità mentale, eppure essere disposti a ricominciare il giorno dopo. Eppure, pur facendolo, sono piú gli errori che le cose ben fatte e, soprattutto, questo non ci dà nessuna garanzia né tanto meno potere. Io ho esposto mia figlia almeno in un paio di occasioni, a meno di 15 anni, al rischio molto concreto di subire violenza. È andata bene, ma poteva andare male, malissimo. Certe volte la cosa mi tiene sveglia la notte ancora oggi, ma non so se in futuro valuterei diversamente.

Questo discorso però mi ha portato anche a farne un altro, leggermente diverso, con una collega. Notavamo, intorno a noi, un livello di crescente disagio e sofferenza dei nostri coetanei, che permea ormai quasi tutti i rapporti interpersonali e li rende faticosi, dolorosi e a tratti impossibili del tutto. La collega sosteneva che, mediamente, gli uomini sono messi peggio delle donne. Ci ho pensato un attimo e istintivamente mi veniva da concordare. Non perché noi donne soffriamo di meno, anzi: ma mediamente, stringendo molto i denti, andiamo avanti e teniamo i pezzi insieme. Stamattina, per dire, mi sarei volentieri rintanata sotto il letto come fa la mia gatta quando le cose non le vanno a genio. Però non l’ho fatto. Perché?

Direi che, statisticamente, una donna italiana difficilmente se lo potrebbe permettere, perché banalmente ha (o avverte) su di sé la responsabilità di qualcun altro: figlio/a, genitore anziano, altro parente, marito/compagno che (poverino) deve essere supporato, persona o animale a caso bisognosa/o di cura. E così lo stesso carico (irragionevole, inappropriato e a volte francamente ingiusto) di cui ci carichiamo istintivamente, finisce per essere quello che ci protegge dall’abisso. Paradossale, magari. Ma sospetto che ci sia del vero.

Frammenti e ammissioni


Sentivo parlare di questo film fin da quando lo stavano girando e questo poteva essere un buon motivo per non andare a vederlo. Se devo essere del tutto onesta, avevo avuto anche modo di farmi alcune idee sull’opera in sé che ancor di più potevano portarmi a risparmiarmelo. La ciliegina sulla torta ce l’hanno messa i social: da quando è uscito, me lo riproponevano in forma di post sponsorizzato letteralmente in tutte le salse. Avete presente quando camerieri troppo zelanti insistono per farti sedere ai tavolini di un ristorante dove magari senza tutta quell’insistenza ti saresti pure seduto? Ecco, da quando l’algoritmo ha stabilito che questo film corrispondeva ai miei interessi, avevo ancora meno voglia di vederlo.

Ma per fortuna odio essere condizionata e in un angolo della mia mente ho continuato ad ammettere a me stessa che l’idea alla base di questo film/documentario era indubbiamente buona, anzi unica. Quindi ieri sono andata alla Sala Troisi, da sola, in uno scampolo di una giornata forse non storta, ma certamente anomala.

Ripensandoci ora, mi chiedo se in fondo non mi augurassi di trovare un motivo intelligente per confermare i miei pregiudizi negativi. Forse. Comunque non l’ho trovato. Mi è piaciuto moltissimo. A tratti mi ha persino commosso. Perché è vero quello che dicono le critiche: è talmente individuale, talmente spudoratamente messo a fuoco su una singola persona, da avere un guizzo di universalità. È come se l’autoreferenzialità fosse spinta talmente oltre da traboccare nel suo opposto.

Rimuginare sull’amore e sulla memoria, sulla nostalgia e sulle conseguenze delle scelte, fatte e subite, ha un fascino a cui è difficile resistere. E chi non ha mai fantasticato di chiedere a chi abbiamo amato e a chi ci ha amato quella terribile e potente domanda evangelica: “Voi, chi dite che io sia?”. Ecco, la regista lo ha fatto. Anzi, lo ha fatto fare da altri, filmandolo, trasformando la cosa da una specie di esercizio retorico individuale in una indagine spietata e a tratti degna dell’Edipo Re.

Stamattina ne ho parlato a mia figlia, che ha 16 anni. Spero di averla incuriosita abbastanza da vederlo anche lei. Lei che comincia solo ora a archiviare in scatole colorate i primi passati amori. E che ha detto che quello che ha fatto Chloé Barreau è geniale e un giorno vorrebbe farlo anche lei. “Riconoscendole il merito di averci pensato per prima, ovviamente”.

Cosa stiamo facendo


Stamattina un’amica, dalla Sicilia, mi segnala una notizia dell’ANSA, che vi riporto sinteticamente qui di seguito.

“Due autisti sono morti e 25 migranti sono rimasti feriti, alcuni in modo grave, in un ìncidente stradale avvenuto l’autostrada A1, all’altezza di Fiano Romano (Roma). I migranti, una cinquantina circa, erano sull’autobus della Patti tour di Favara che ha un contratto con la Prefettura di Agrigento. Da Porto Empedocle era partito alle ore 10 di ieri per trasferire i migranti in Piemonte. Sul colpo è morto uno dei due autisti a bordo; l’altro, sbalzato dall’abitacolo, non è stato ancora ritrovato. Il bus ha avuto un impatto frontale con un mezzo pesante. I due autisti, entrambi italiani, sono morti. I migranti erano sbarcati a Lampedusa nei giorni scorsi. I due autisti morti avevano 35 e 32 anni. Tra i feriti due sono stati trasferiti in codice rosso al Gemelli ed all’Umberto I, otto in codice giallo distribuiti in vari ospedali. Altri 35 migranti sono stati visitati, ma non trasportati in ospedale perché illesi: sono stati quindi affidati alla prefettura”.

Gli incidenti, per loro natura, sono tragici e imprevedibili. In questo caso, però, credo che sia utile sottolineare alcune circostanze che sono impietosamente messe in luce dai nudi fatti riportati dall’agenzia.

Una cinquantina di migranti, sbarcati nei giorni scorsi a Lampedusa, sono stati prima trasferiti a Porto Empedocle e di lì venivano accompagnati, in pullman, in Piemonte. Non si tratta di un fatto eccezionale, ma di un normale meccanismo di distribuzione dei migranti che arrivano via mare in tutte le regioni di Italia. Tale distribuzione implica che i trasferimenti siano da mesi pressoché continui e dai porti della Sicilia (o della Calabria) si utilizzano pullman, con tutte le ore di viaggio che questo implica. Sulle modalità, i tempi e i criteri con cui lo smistamento (o il “riparto”, come viene spesso definito) è effettuato ci sarebbe molto da dire, ma lasciamo per ora da parte questo aspetto. Limitiamoci a notare che i migranti sbarcati a Lampedusa e spesso soccorsi in mare a valle di viaggi efficacemente descritti, ad esempio, nel bellissimo film di Garrone “Io, capitano”, vengono assegnati al centro di accoglienza a cui per legge hanno diritto dopo una serie di passaggi non ovvi, non sempre lineari, che talora prevedono trasferimenti da un porto all’altro (ho sentito usare il termine “stallo” per definire queste soste tecniche) e attese anche di giorni in sistemazioni di fortuna.

D’altro canto, perché questo avvenga, centinaia di altre persone, per lo più italiane (funzionari di Prefettura, poliziotti, medici e infermieri, operatori di agenzie europee e internazionali, mediatori, volontari, persone volenterose e – la cosa oggi ha la sua tragica rilevanza – autisti), sono soggette – chi più chi meno – a turni di lavoro impossibili, tensioni, conflitti, problemi da affrontare senza reali strumenti per risolverli, obblighi di legge da rispettare senza la possibilità concreta di farlo.

Io credo sia davvero disonesto dire che tutto questo avviene perché le persone che arrivano sono troppe. Mi rendo tuttavia conto che chi considera solo quello che viene riferito normalmente dai telegiornali non può che pensare questo. I numeri degli arrivi sono sicuramente alti (a ieri erano sbarcati in Italia 125.928 migranti, secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Interno), ma nel 2016 in un anno le persone arrivate via mare sono state 181.436, quindi abbastanza in linea con la situazione attuale. Una situazione non si può valutare solo con i numeri, altri elementi vanno considerati. Ma certamente una diversità importante rispetto al 2016 riguarda il funzionamento e la capienza effettiva del sistema di accoglienza. I posti disponibili sono sempre di meno e ci sono ragioni che determinano questa situazione.

In questi anni sono state prese delle decisioni, politiche, che – contro ogni buon senso e razionalità di uso delle risorse economiche – hanno di fatto minato il molto di buono che era stato faticosamente costruito (sia pure a macchia di leoprado, con mille limiti, in modo incompiuto…) per una gestione intelligente delle migrazioni forzate. (Questo è un discorso lungo, ma per una battuta rapida sulla recentissima attualità ascoltate ad esempio questa intervista). Queste decisioni oggi presentano il conto, non solo per quello che subiscono i migranti (che pure ci riguarda, evidentemente), ma più direttamente nel quotidiano di molti cittadini, in molti più forme di prima.

L’arroganza di pochi governanti incapaci (o almeno non intenzionati) a valutare la realtà è sempre più pericolosa. Io vorrei almeno vedere l’indignazione di molti cittadini. Non solo la legittima commozione per la morte di una bambina. Ma la profonda indignazione, argomentata e motivata, nei confronti di chi si prende il lusso di dare per scontata la morte e la profonda sofferenza di sempre più persone (migranti, lavoratori, persone che prendono seriamente la legge e il senso dello Stato).

Conversazioni in Calabria


Chissà perché i treni quando vanno verso sud mi paiono più lenti di quando vanno verso nord. Le 4 ore abbondanti di viaggio verso Vibo Valentia sembrano infinite e le ho passate per lo più immersa nella lettura del mio Kindle, cercando di ridurre al minimo i contatti fisici e verbali con gli altri passeggeri. Poi però, quando siamo avvicinandoci alla meta, la coppia che mi siede accanto inizia a chiacchierare con il ragazzo seduto di fronte a me e a quel punto non posso fare a meno di partecipare. E meno male.

Il giovane atletico che ho davanti, che a Roma aveva la normale espressione del viaggiatore standard, ora che abbiamo varcato il confine regionale pare trasfigurato di felicità. “Sono stato in servizio sette mesi a Verbania”, sta spiegando ai vicini di posto. “Finalmente ho ottenuto il trasferimento e glielo ho già detto, alla mia fidanzata: io da qui non mi sposto più. Ci ho provato, davvero, ma io lontano dalla Calabria non posso proprio stare. Per carità, ci sono dei servizi che noi ce li sogniamo. Si vive comodi. Ma a che serve avere servizi se non si è felici? Intanto il mare. Tre tatuaggi del mare mi sono fatto fare, in questo periodo che sono stato lontano. La luce, il sole, i colori. E il cibo. Spendevo un patrimonio per del cibo che non sapeva di niente. Io ora che ho arrivo a casa so già che mi aspetta: pomodori e cipolla di Tropea, gliel’ho detto a mia mamma. Meglio di così non esiste. E poi le persone: gentili, per carità, ma fredde, distanti. Niente, io sono nato per vivere qui. Sono stato fortunato, ora ne ho l’opportunità e non ho intenzione di sprecarla”.

La coppia accanto ha tre figli grandi, che in occasione della laurea della più piccola hanno regalato una crociera ai genitori per festeggiare “la fine dei figli a carico”. “A mio figlio avevano offerto un’opportunità di lavoro a Milano, molto ben retribuita. Ma lui preferisce restare dov’è. Per fortuna il lavoro non gli manca, al limite viaggia. È molto richiesto, come commercialista. Ma di trasferirsi non vuole sentirne parlare. Per fortuna hanno studiato tutti e tre, brillantemente. Mantenerli agli studi fuori è stato un sacrificio. Ma ora possono scegliere e finora hanno scelto di vivere in Calabria. E credo che se potranno continueranno così. La famiglia per noi conta qualcosa…”.

Il giorno dopo racconto questa conversazione al tassista, un uomo ormai alle soglie della pensione. “Non lo dica a me, capisco benissimo. Lo sa che lavoro facevo io? Il macchinista di treni. Negli anni ’80 mi assumono in ferrovia, una posizione molto ambita. Ma mi mandano a Trieste. A me, a Trieste. Ho resistito per due anni, ma quanto ho sofferto. Le persone erano più fredde e ostili del clima. Parlavano apposta non italiano, perché non capissi. E io rispondevo in calabrese. Quelli non si sentono neanche italiani, con uno come me non volevano averci niente a che spartire. Ho chiesto trasferimento, ovunque: a Napoli, a Messina, a Palermo, ma pure a Roma mi sarebbe andato bene. Niente, mi hanno detto che prima di dieci anni non mi avrebbero spostato da nessuna parte. Allora ho presentato le dimissioni. La prima lettera la hanno strappata, il mio dirigente non ci voleva credere. Pensava che fossi impazzito. Allora ho chiesto di nuovo trasferimento e di nuovo me lo hanno negato. A quel punto ho scritto un’altra lettera e mi sono assicurato che la protocollassero. Non me ne sono mai pentito. Io penso che un uomo deve morire dove è nato. Magari vivere lontano, certe volte si deve per forza. Penso a tutti quelli che se ne sono dovuti andare in America, in Australia, dall’altro capo del mondo. Ma almeno da vecchi tutti dovrebbero poter tornare a casa”.

Non mi trattengo e gli faccio notare quante persone sono oggi costrette a arrivare qui, dall’altro capo del mondo, e magari provano sentimenti e sofferenze simili. “Dice? Non so se per loro è uguale. Quelli sono musulmani…”. Poi ci pensa un attimo e aggiunge: “Però mi sa che ha ragione. Tutti uomini siamo”.

Già. Penso a questa terra che di umanità trabocca e che a volte si perde e affoga nella mancanza di servizi. A quanto si potrebbe fare (e qualche volta si riesce a fare) mettendo le cose in una prospettiva diversa e valorizzando le idee, l’entusiasmo, il calore che c’è. Oggi a una riunione in Prefettura ho sentito parlare dell’importanza del successo scolastico dei giovani di origine straniera e del contributo che potrebbero dare per il futuro di questa terra. Sono discorsi non ovvi di questi tempi, in questo momento politico, in un luogo in cui perdersi nell’ultima emergenza è fin troppo facile.

Come fare perché tutte queste potenzialità non vadano sprecate? Certe volte pare di svuotare il mare con un cucchiaino. Viene da pensare che tutto è inutile, che non valga neanche la pena di credere che un cambiamento sia possibile. E invece vale sempre la pena di credere nella bellezza delle persone e nel loro potere di trasformare la realtà. “Ormai è una parolaccia”, scriveva monsignor Bregantini, un trentino che a queste terre ha dedicato un impegno lungo e sincero. Quasi quasi stasera mi rileggo il suo libro.

Non è uguale


Giornata del Rifugiato amarissima, quest’anno. Per le stragi continue che non impressionano più nessuno al punto che abbiamo fatto lutto nazionale per una persona ignorando la morte di centinaia di innocenti. Per l’accordo europeo che ufficializza il prezzo irrisorio di quelle vite, quantificando gli euro necessari a essere dispensati dal salvarle. Per un ministro dell’interno che può andare a qualche centinaia di metri da cadaveri di bambini e dire che lui no, non potrebbe mai essere un rifugiato perché gli hanno insegnato a chiedersi cosa fare per cambiare in meglio il suo Paese. Per i giovani dirigenti statali che la settimana scorsa ho sentito parlare di riparti, stalli e altre incombenze certamente penose, che però coinvolgono centinaia di persone sofferenti e neppure una parola di quei discorsi lo faceva trasparire.

Oggi penso a quelli che hanno preso e prendono, ciascuno per la propria responsabilità, le decisioni che compongono quelle “politiche sull’immigrazione” che decidono della vita di tanti. Alcune, in questi 25 anni, le ho conosciute. E mi rendo conto di aver smesso di sperare che almeno uno di loro, magari a livelli più bassi, faccia entrare la giustizia e l’umanità in quelle decisioni.

Stamattina, ascoltando su Spotify in Cd Shahida, realizzato da Claudio Zonta per il centro Astalli, grazie alla generosità di tanti artisti, sento il bisogno di ricordare a me stessa che non devo, non dobbiamo arrenderci al cinismo che dilaga. Fosse solo non smettendo di chiamare le cose con il loro nome, ostinatamente. Resistendo, insomma.

15 anni, quasi 16


Ho iniziato questa settimana del compleanno di Meryem in preda a sentimenti contrastanti. Venerdì sarà il giorno della fanciulla, ma questi giorni me li prendo io per rimuginare.

Finisce la serie di anni in cui ho vissuto una parte importante delle mie conoscenze dei panni della “mamma di”. Ora, ma già da un paio d’anni almeno, mi dico che dovrei rientrare nei miei panni di persona con un’identità propria. Non dico di non averla, una personalità mia, non fraintendetemi. Ma la mia “identità relazionale”, anche qui sul web, è stata per molti anni legata strettamente e persino, in qualche modo, legittimata dal mio status di genitore.

In fondo in fondo essere fin qui riuscita a interpretare il ruolo di madre, che non faceva di per sé necessariamente parte delle mie aspirazioni da ragazza, lo considero di gran lunga il mio successo più significativo – a tratti, nei momenti di pessimismo, l’unico.

Ora ovviamente il compito è tutt’altro che concluso. Ma è decisamente arrivato il momento, non più rimandabile, di combinare anche qualcos’altro. Perché sinceramente per ripiegare nello stereotipo che pure pare tornato prepotentemente in voga di “moglie e madre esemplare”, mi manca almeno il 50% del ruolo (oltre al fatto di essere esemplare, naturalmente).

E allora? Bisogna che mi dia una mossa e che la smetta di cercare scuse e di nascondermi dietro mia figlia, che è certamente uno splendore, ma che proprio per questo non merita di farmi da paravento.

Specchi


Ho sempre apprezzato, quasi idolatrato, la sincerità. Oggi mi rendo conto (meglio tardi che mai) che la sincerità, un po’ come l’intelligenza, da sola non basta e quindi non è un valore assoluto. Probabilmente per capirlo mi serviva diventare (o realizzare di essere) più vulnerabile e più stupida. Smettere di essere quella che era brutalmente sincera e interpretare la parte di quella che ascolta qualcun altro essere brutalmente sincero.

Oggi finalmente capisco cosa ho fatto per anni a persone che pure mi erano care e non ne sono fiera. Era per il loro bene? Ho creduto di sì, in tutta sincerità. Ma vista la cosa da una prospettiva nuova, sospetto che fosse soprattutto per il mio bisogno di compiacermi della mia brutale sincerità. Per quel che vale, mi dispiace molto per tutto lo spreco di amore che questo ha portato. Amore che potevo dare in modo meno giudicante, amore che potevo ricevere scendendo dal mio ridicolo piedistallo.

Cammini


In una giornata in cui molto più di quanto avrei voluto avevo abbondantemente rimuginato sul passato, sul presente, sugli errori fatti in tempi remoti e su quelli commessi pochi minuti prima, mi sono trovata ancora una volta sotto la splendida cupola di S.Andrea al Quirinale.

Neanche a farlo apposta, un brano dello spettacolo a cui ho assistito parlava di cammini incrociati e di piani diversi che si intersecano. E allora è stato inevitabile ripensare al mio, di cammino, alle tappe aggrovigliate che ancora una volta mi hanno portato in quella chiesa, peraltro un po’ da imbucata, in mezzo a tanti gesuiti.

Quel pensiero, oggi, mi faceva un po’ paura. Mi sentivo particolarmente vulnerabile e temevo il giudizio impietoso che solitamente riservo a me stessa. Poi, sotto una bellezza surreale e avvolta dalle note di una canzone che mi è particolarmente cara, inaspettatamente mi sono trovata nel cuore se non una risposta una sicurezza: avevo fatto bene, oggi, ad essere lì.

Tra tutti gli inciampi che ho avuto e avrò, mi è oggi chiara una cosa: l’amore non è mai sprecato. E prima o poi ritorna, magari trasformato, si riflette e si moltiplica, anche e forse soprattutto dove non si credeva potesse avere senso mettercelo. Di molte scelte oggi mi rammarico, ma non delle volte che ho cercato di dare attenzione e importanza a un amico, non delle volte in cui ho espresso in parole un apprezzamento senza calcolo.

E la bellezza, specialmente quella del cuore (ma anche quella artistica, qualche volta) tutto copre e tutto sopporta.