Sbuffare non basta

Qualche ora fa mi sono trovata a leggere una nota sulla bacheca di Facebook di Amedeo Piva, una persona che conosco – sia pur non a fondo, ma da tempo – e che apprezzo. ““Ma perché continui a dedicare tempo e testa alla politica e al partito? Tanto ti ascoltano poco lo stesso!”.  Vi assicuro che faccio sempre più fatica a trovare una risposta sincera ed convincente a questa ricorrente domanda che mi rivolgono gli amici”, scrive Amedeo. Poi ricorda impegno e passione di operatori e volontari dediti a varie iniziative sociali (tra cui il Centro Astalli, per cui lavoro) e conclude: “Vorrei essere il ponte tra loro e  il mondo della politica. Molti obiettivi -insieme a loro- sono stati raggiunti, altri possiamo e dobbiamo raggiungerli. Ecco, è questa la risposta sincera e spero convincente del perché non resterò in vacanza ma continuerò a battermi per la politica”. A questo punto confesso (non me ne voglia Amedeo) che ho sbuffato. Per poi dirmi, subito dopo, che il mio sbuffare non era solo ingeneroso, ma anche un po’ incoerente. Perché, alla fin fine, io sono profondamente scettica rispetto al fatto che questa politica, questo partito delle cui posizioni continuamente altalenanti Amedeo si lamenta nella sua nota (il PD, se non vado errata) o anche altri attualmente presenti sulla scialba scena italica, possano davvero avere degli obiettivi in comune con me (o, lavorativamente parlando, con noi)? Questo devo cercare di capire. Sbuffare non basta.

Mi sono ricordata una conversazione di qualche mese fa, avvenuta proprio al Centro Astalli con padre Materazzo, attuale direttore del Centro di Formazione Politica Pedro Arrupe di Palermo e alcuni operatori del Centro Astalli in Sicilia. Si parlava, mi pare, del fermento che si registrava già dalla primavera a Palermo, dai tanti esperimenti di partecipazione cittadina e dall’impulso positivo di varie iniziative sociali, in particolare di quelle contro le mafie. Ricordo di aver detto che, a mio parere, si tratta di cose molto positive, ma che non portano immediatamente e necessariamente a una riqualificazione della politica. La possibilità di partecipazione effettiva nel sociale esiste. Nella politica, obiettivamente, meno. Si ha la sensazione di essere trattati come quei condomini pigri chiamati a firmare deleghe in bianco affinché l’assemblea, che non interessa più di tanto a nessuno, raggiunga il numero legale e si possano prendere, senza troppe discussioni, le solite decisioni nel solito stile. Questo sostenevo ad aprile e questo in effetti penso ancora. Tuttavia non è sufficiente nemmeno fermarsi qui. Approfondiamo ancora.

Un primo problema che individuerei è la questione della leadership. Non si tratta solo della banale mancanza di leader adeguati, qualunque cosa ciò voglia dire. La sensazione è piuttosto che si sia un po’ perso di vista cosa ci si aspetta da un leader. Ricordo una questione tragicamente analoga all’università: chi aveva l’autorevolezza e la competenza specifica non sapeva coordinare un team; chi aveva flessibilità e idee innovative non aveva   autorità; chi conosceva a fondo i processi non sapeva comunicare. E così via, di disastro in disastro, di personalismo in personalismo, fino alla dissoluzione di quasi tutto il patrimonio di sapere e di prestigio di una scuola di studi unica nel Mediterraneo. Un’altra questione cruciale è la trasparenza. Alla luce della mia esperienza, in ambiti diversi, quella tende sempre a mancare. C’è sempre, magari è fisiologico, una cerchia ristretta (talora ristrettissima) che prende le decisioni, in qualunque esperienza collettiva che si vuole dinamica e fattiva. Non lo trovo scandaloso, di per sé. Il problema è che il più delle volte si ha la sensazione che questo “cerchio magico” (lo so, lo so, non è l’espressione corretta: passatemela) si formi più per inerzia che per vera scelta strategica. Chi c’è da tanto, chi si conosce, chi è affine, chi dedica più tempo. E poi si cristallizza e si alimenta per contatto, per “bazzicamento”, più che per processi governati. Non è necessariamente nepotismo, ma certo che è l’anticamera della fumosità. Si può fare diversamente? Non saprei. Io, nell’unica esperienza associativa che ho avuto, non ci sono riuscita.

C’è poi l’immensa questione della comunicazione. Se ne fa un gran parlare, si millantano competenze e professionalità specifiche. Ma alla base di una buona comunicazione non può che esserci trasparenza, coerenza e credibilità. Non bastano, certo. Tutto si può e si deve rafforzare con tecniche specifiche. Ma se le basi mancano, puntare sulla comunicazione equivale a vendere fumo e a sprecare continuamente risorse nella difficile quanto vana arte di mettere pezze e arrampicarsi sugli specchi. Perché poi, alla fine, la vera domanda è: qual è il messaggio di fondo? Ce n’è uno? E’ interessante, è convincente, è credibile? Qualcuno ci ha pensato e ci pensa? Chi, esattamente? Un’enorme mancanza di visione, di prospettiva. Questo mi pare di vedere in tutte queste altalenanti prese di posizione effimere e assai poco edificanti.

Alle ideologie non crediamo più, sia pure. Ma quali sono i fondamenti del nostro ipotetico agire comune?  Qui casca l’asino. Un’azione nel sociale di questo punto fa la sua forza. L’obiettivo, le strategie, la mission. Sono in genere elementi semplici, facilmente comunicabili, tangibili e capaci di creare immediatamente comunanza tra persone molto diverse. L’obiettivo della politica dovrebbe essere il bene comune, se non fosse che il concetto sembra ormai aver perso qualunque significato e profondità. In una nota, diversi mesi fa, Gianni Del Bufalo (altro amico del giro di Amedeo e assiduo lettore di questo blog) osservava che la politica non è fatta di “cosa”, è fatta di “come”. Il “cosa” generico (maggiore equità, più sviluppo, più innovazione….) conta poco. E’ il processo, le priorità, i metodi che fanno la differenza. E di questi, di solito, in campagna elettorale non si parla (rinunciando quindi ad ogni credibilità in merito a un cambiamento possibile). Aggiungo io che le priorità non si determinano volta per volta, a seconda della circostanza, dell’alleanza eventuale, del calcolo. I criteri di scelta dovrebbero essere trasparenti in quanto noti, ragionati, esplicitati in una visione culturale condivisa e dinamicamente costruita. Troppo? Forse è già troppo. Ma proviamo a spiegare meglio.

Devo averlo già scritto. Se c’è qualcosa che mi irrita, quando i politici di qualsivoglia schieramento partecipano a un dibattito televisivo, è il continuo richiamo alla necessità di “parlare semplice altrimenti il pubblico a casa non capisce”. Un parlare semplice che non è mai parlare chiaro, badate bene. Non dati, non esempi, non parabole. Sono frasi generiche da conclusione di tema di terza media, quelle frasi intercambiabili che vanno bene per il tema sulla droga come per quello sulla globalizzazione. Non ho mai visto un politico contribuire, attraverso il pubblico dibattito, all’educazione della cittadinanza. Sorridete, eh? Eppure in questa perversa dinamica tra l’oratore che assume che il pubblico non sappia nulla e non sia in grado di recepire nulla (e quindi si autoassolve per il fatto di non dire nulla o di dire corbellerie, in nome della facilità) e l’arroganza furbesca di noi pubblico che crediamo di sapere già tutto si gioca la nostra crassa ignoranza, esponenzialmente crescente e compiaciuta di se stessa. Il fatto che gli orizzonti siano così ristretti (entro i confini nazionali, a brevissimo raggio temporale e con un occhio attento al pettegolezzo) non contribuisce ad innescare alcuna dinamica positiva. L’effetto baretto di provincia è assicurato.

La politica, intesa come espressione di gruppi di sapere collettivo, dovrebbe ovviamente educare la cittadinanza, nello spirito di accrescere la consapevolezza di ciascun cittadino. A prescindere dalla preferenza che in alcuni momenti il cittadino in questione deve esprimere, evidentemente. Perché mandato della politica non è “farsi eleggere” (nessun metodo potrebbe infatti essere maggiormente efficace della compravendita dei voti, se ci limitassimo a questo), ma costruire il bene comune – e prima ancora capire quale sia, questo bene comune. Ora io ho la sensazione che in quanto a sapere collettivo (e individuale) e a orizzonti interpretativi si sia molto contestato e smontato, ma poco o nulla costruito. Anche su questo non ho le idee chiare. Forse bisognerebbe ripartire dai testi di chi una volta pensava e da quelli dei pochi che tuttora pensano. Studiare. Passare al vaglio della critica e dell’esperienza. Sperimentare sintesi tutt’altro che banali tra teoria e prassi. Riaccendere i cervelli, dare modo di esprimersi a quelli che magari già lo fanno, ma non hanno occasione e energia di fare sintesi. Qui il partito, il movimento o quel che è dovrebbe farsi laboratorio, o piuttosto laboratori. Ispirarsi di esperienze (penso a quella, educativa, dei Maestri di Strada, con tutti gli spunti metodologici che comporta), avvalersi di competenze. Si dice sempre che la politica deve avvicinarsi al territorio. Forse si tratta piuttosto di tornare a farne parte, con umiltà e creatività. La prima urgenza che vedo è quella di riaccendere l’entusiasmo. Non per “la politica”, ma almeno per qualcosa. Per un’idea, per uno spunto di cambiamento. Credo che di entusiasmo in giro ce ne sia molto, ma che sia singolarmente poco alimentato. E manca specialmente dove più dovrebbe essere: nei luoghi di educazione dei bambini e dei giovani. Ma su questo magari mi dilungherò un’altra volta.

Due parole conclusive sull’indignazione. Una volta credevo che fosse una leva potente. Ma mi rendo conto che, per quanto apparentemente facile da usare, non è uno strumento così valido. A indignarci siamo buoni tutti, per un minuto. Suscitare indignazione è una delle arti più facili che esistano. Io stessa, spesso e volentieri, mi lancio in calorose invettive. Oggi ho letto questo post della mia amica Cristiana, che pur non essendo direttamente connesso al tema mi fa pensare. Contrapporsi non è costruire. Magari può dare la sensazione di creare identità, ma alla fine non è l’essere contro che contribuisce a farci capire dove vogliamo andare e come. Decostruire dà soddisfazione. Ricordo gli studi sulla storia dell’Israele antico: a furia di decostruire si arrivava a un dottissimo e sofisticatissimo nulla, che non aveva nessuna utilità, né epistemologica né tanto meno storica. Al limite una manciata di autocompiacimento. Ma serve ben altro per riprendere in mano le sorti di un Paese.

2 pensieri riguardo “Sbuffare non basta”

  1. Che bello leggere qualcosa di articolato ed intelligente che ti rimette in sesto il cervello in mezzo a queste mezze calzette sempre presenti in televisioni che rispondono in modo idiota a domande ancora più idiote!
    Mai una volta che un qualsiasi confronto inizi fornendo agli ascoltatori alcune basi concrete a
    cui riferirsi; ad esempio non c’è una volta che qualcuno non confronti la % di un particolare ministero con la stessa % che si ha in altre nazioni europee; ma se in ogni settore (università scuola, sanità, lavori pubblici, assistenza , spese militari,…) siamo sotto sempre mi chiedo: poichè ci si riferisce a % vuol dire che ci sarà un settore in cui finalmente li rompiamo e ce ne possiamo vantare! Mi piacerebbe conoscerlo se non è un segreto militare!
    un caro slauto
    Luciano Fantini

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